L'anatomia umana si sarebbe sviluppata più di 2 M.A. sotto la
pressione e lo stimolo indotto da un 'attività di corsa, poiché attività
necessaria ai nostri antenati nel competere con gli altri predatori per
l'approvvigionamento di cibo nell'ambiente della savana. Proprio la
corsa, in particolare la corsa su lunghe distanze, avrebbe stimolato la
differenziazione dello scheletro e dei complessi muscolari umani a
partire dalle Australopitecine. Questo il risultato, pubblicato il 18
Novembre 2004 sulla rivista Nature, dei decennali studi del Biologo
Dennis Bramble dell'Università dello Utah e l'antropologo
dell'Università di Harvard Daniel Lieberman.
Premessa
I
fossili relativi ai più antichi ominidi sono databili tra 6-3 MA, un
periodo che va dal Tardo Miocene al Pliocene Medio. Comunemente
denominate Australopitecine arcaiche, questi fossili rappresentano gli
antenati più vicini alle Antropomorfe che possediamo, forme ancora
decisamente arcaiche, ma che già possiedono caratteristiche derivate,
prima fra tutte la locomozione bipede abituale. I dati non sono certi a
riguardo, essendo i complessi fossili ancora scarsi e frammentari, ma
informazioni a livello dell'omero, della tibia, del femore e a livello
craniale indicherebbero che già questi arcaici ominidi si muovessero con
deambulazione bipodalica. un gruppo di resti trovato sulle colline
Tugen, in Kenya, relativo a porzioni di mandibole con denti sparsi e
frammenti degli arti inferiori, rivelerebbe che già l'Orrorin tugenensis
(tale è il nome di questo primo potenziale ominide) fosse bipede, pur
mantenendo un notevole adattamento all'arrampicata arborea. Questi
caratteri fondamentali sarebbero confermati anche negli ominidi
successivi, dai resti craniali relativi all'Ardipithecus ramidus, che
mettono in luce la posizione del foramen magnum più avanzata rispetto
alle Antropomorfe, così come ne l'Australopithecus anamensis, il più
antico rappresentante della specie Australopithecus, dove
caratteristiche a livello della tibia attesterebbero il bipedismo.
Questo carattere non si sarebbe perso nei generi e nelle specie
successive ma si sarebbe bensì affermato come un carattere vantaggioso e
quindi favorito dalla selezione naturale, sino a rappresentare una
caratteristica distintiva del genere Homo. Gli Studi di Dennis Bramble e
Daniel Lieberman suggeriscono tuttavia che l'acquisizione della
locomozione bipede di per sé non rappresenti per l'uomo un deciso stacco
evolutivo, un carattere discriminante e stimolante cui ricondurre
completamente l'evoluzione anatomica di Homo habilis, e ancor più di
Homo ergaster. Le Australopitecine hanno camminato in posizione eretta
per almeno 2,5 milioni di anni, pur presentando ancora caratteristiche
fisiche ben lontane dall'uomo moderno: come può quindi il bipedismo aver
improvvisamente stimolato l'evoluzione del corpo verso l'anatomia
moderna? Questa la provocatoria e stimolante domanda posta dai due
studiosi americani.
Il significato evolutivo degli adattamenti anatomici in Homo spiegati attraverso la corsa
Generalmente
Homo habilis viene considerato degno di appartenenza al nostro stesso
genere per caratteristiche a livello craniale, quale la conformazione
più umana della scatola cranica, con gli occipitali arrotondati, e
l'espansione delle aree frontali e parietali, indici di una capacità
cranica maggiore che si aggirava attorno ai 600 cc. Ma non solo. Homo
habilis è soprattutto il primo ominide a sviluppare tratti
comportamentali tipicamente umani, l'occupazione ripetuta di una singola
località, e la concreta produzione di strumenti in pietra. Si tratta
della più antica testimonianza di una manipolazione volontaria e
ripetuta dell'ambiente esterno da parte di un animale. L'interpretazione
dei choppers e chopping tools, se lecito chiamarli così, è in realtà
oggi argomento di accesi dibattiti incentrati attorno alla loro presunta
funzionalità: o come nucleo, quindi esclusivamente come base per il
distaccamento di schegge, o come vero e proprio strumento di taglio,
incisione e percussione. Ciò che è importante mettere in evidenza, al di
là delle forti problematiche annesse allo studio delle industrie
relative al Paleolitico inferiore, è l'atteggiamento: l'aver iniziato in
modo sistematico a lasciar traccia, in ogni piano di frequentazione, di
ciottoli scheggiati e schegge, lavorate e non, comunque utilizzate, da
quanto l'analisi delle tracce d'uso rivela, per tranciare, tagliare,
raschiare, carne, legno, e cuoio. (L'analisi delle tracce d'uso si basa
sulla possibilità di riconoscere lungo il margine funzionalmente attivo
degli strumenti tracce di lavorazione e di usura attraverso microscopio
ottico a luce riflessa, microscopio binoculare e microscopio a
scansione, potendo così, attraverso un confronto con le tracce e le
usure lasciate dalle attività sperimentali su manufatti litici moderni
fabbricati con il medesimo tipo di selce, determinare l'effettivo
utilizzo dello strumento.) Quale può essere stato il motore alla base di
un tale comportamento? Probabilmente una scoperta casuale, ma ciò non
toglie che successivamente a una semplice acquisizione individuale si
passi a una conoscenza comune, estesa non solo a tutti gli elementi del
singolo gruppo, ma anche agli altri gruppi di ominidi e quindi a tutti
gli appartenenti alla specie, in modo relativamente uniforme, e senza
che sia stato possibile identificare sino ad adesso linee divergenti
dalla tradizione Olduwaiana. Quest'uniformità innanzitutto testimonia
l'importanza dell'apprendimento sociale come mezzo per trasmettere,
anche indirettamente, nuovi comportamenti utili alla sopravvivenza. Ogni
acquisizione umana, in questo contesto, deve infatti necessariamente
avere una ragione evolutiva, nascere con il fine di migliorare la
propria condizione e di presentarsi più competitivi nella lotta per la
sopravvivenza. Proprio lo stimolo base della conservazione di sé e della
propria specie rappresenterebbe il motore per l'acquisizione di tali
conoscenze e per la loro diffusione, in quanto necessarie, o perlomeno
utili, alla specie. Ed è in tale ottica che, secondo gli studiosi
americani, è effettivamente difficile spiegare lo sviluppo di alcuni
caratteri anatomici moderni attraverso la sola acquisizione della
locomozione bipodalica, anche perché in taluni casi non interessati
nella deambulazione e non funzionali a tale scopo. La risposta viene
quindi ricercata in un'attività naturale per l'uomo, che è però stata
spesso vista semplicemente come una conseguenza logica della stazione
eretta, la "corsa".
Bramble e Lieberman hanno
ipotizzato che proprio la necessità di correre abbia portato alla
differenziazione della linea umana, attribuendole una fondamentale
importanza nella nostra storia evolutiva. La selezione naturale avrebbe
infatti favorito l'affermarsi di quei caratteri anatomici che permettono
di percorrere lunghe distanze a corsa, necessitando quindi di una
struttura ossea e complessi muscolari che associno resistenza e potenza a
stabilità ed equilibrio. La deambulazione bipede, secondo tali recenti
studi, non figurerebbe quindi come un carattere così determinante nello
sviluppo dell'anatomia umana, bensì il bipedismo, sviluppatosi già
attorno a 4,5 MA in un habitat ancora parzialmente forestale, ben prima
dell'avvento dei primi uomini, non rappresenterebbe da solo una
caratteristica esclusiva e distintiva dell'uomo. Le Australopitecine già
camminavano bipedi pur presentando caratteristiche fisiche decisamente
distanti dalle proporzioni odierne. Come spiegare quindi unicamente
attraverso l'acquisizione della postura eretta e della locomozione
bipede tutti i cambiamenti che distinguono Homo da Australopithecus che,
rispetto a noi, presenta gambe corte, avambracci più lunghi, spalle
strette con la cavità glenoidea leggermente inclinata verso l'alto e
connessioni muscolari tra spalle e il complesso testa-collo più estese e
robuste? Per arrivare alle loro conclusioni Bramble e Lieberman hanno
esaminato 26 tratti del corpo umano, di cui molti riscontrabili anche
nei reperti fossili relativi a Homo erectus e in parte a Homo habilis, e
solo alcuni di questi sono implicati nella deambulazione.
Caratteri anatomici necessari alla corsa
Fondamentalmente
per praticare un'attività di corsa costante, il corpo deve essere
capace di assorbire l'impatto con il terreno, assorbire quindi i colpi
attraverso sistemi di dissipazione e distribuzione dell'energia, deve
essere stabile e in grado di mantenersi in equilibrio, deve presentare
una muscolatura sufficientemente potente da poter prolungare il
movimento nel tempo e deve contemporaneamente essere capace di mantenere
la temperatura corporea costante per evitare il surriscaldamento.
Equilibrio e stabilità
Ai
fini dell'equilibrio il nostro corpo innanzitutto presenta una
struttura craniale articolata sopra la colonna vertebrale, col
baricentro situato in posizione centrale. Questo permette di mantenere
la testa in posizione orizzontale con un minor dispendio di energie.
Contemporaneamente la porzione facciale si presenta più piatta rispetto
alle Australopitecine, con minor prognatismo, denti più piccoli e un
apparato masticatorio di minor peso e potenza. La parte anteriore del
cranio è controbilanciata dalla porzione occipitale, distribuendo così
equamente il carico. La corretta distribuzione del peso è un carattere
fondamentale soprattutto in attività di intenso sforzo fisico quali la
corsa. In aggiunta, il canale semicircolare posteriore è, in Homo,
decisamente più largo che in Pan o Australopithecus, testimoniando
probabilmente una maggiore sensibilità alle scosse e ai sobbalzi che
subisce la testa, che sono potenzialmente maggiori e più intensi nella
corsa che nella camminata. Il torace umano presenta una struttura
indipendente dalla testa e le spalle hanno una posizione abbassata
rispetto ad Australopithecus e Pan: sono più larghe e l'unico muscolo
che le collega alla testa è il trapezio. Se infatti una struttura più
compatta, con spalle in posizione elevata e robuste connessioni
muscolari tra torace, collo e testa, è funzionale all'arrampicata
arborea, tale struttura non offre vantaggi nella locomozione bipede, ma
impedisce la rotazione del torace e degli arti superiori
indipendentemente dalla testa, movimento invece necessario nel
controbilanciare l'azione degli arti inferiori. La riduzione delle
dimensioni degli avambracci è fondamentale per ottimizzare la corsa
(anche oggi, individui con arti inferiori notevolmente più lunghi degli
arti superiori, risultano avvantaggiati in tale attività), riducendo la
potenza muscolare necessaria a flettere gli arti nel bilanciamento. Il
loro movimento deve richiedere uno sforzo muscolare minimo, e allo
stesso tempo compensare il movimento delle gambe con un corretto
andamento dei gomiti, che mai devono restare fermi, per esempio in
posizione arretrata, nel qual caso ci sarebbe necessariamente la
torsione del busto. Il tronco nella corsa deve essere infatti portato
avanti praticamente senza movimenti, con l'asse sagittale in posizione
verticale, senza che si abbia "tilting", ossia, non deve aumentare
l'inclinazione in avanti del busto al momento dell'appoggio al terreno,
per poi diminuire in fase di spinta.
Ai fini della stabilità il
corpo deve essere capace di assorbire i contraccolpi, che nella corsa si
fanno decisamente più forti. A livello rachideo dorsale sono il
legamento longitudinale anteriore e il legamento longitudinale
posteriore che ricoprono tale funzione. Si tratta di fasce fibrose che
si addossano rispettivamente alla faccia anteriore e posteriore dei
corpi vertebrali, dall'epistrofeo sino alla parte superiore dell'osso
sacro, aderendo fortemente ai corpi delle vertebre, e più lassamente ai
dischi vertebrali. Tali legamenti sono riscontrabili in mammiferi
specializzati nella corsa, quali cani e cavalli, o in animali con teste
di grosse dimensioni, come elefanti, mentre non sono riscontrabili in
Pan, e probabilmente neppure in Australopithecus, non essendone
rilevabile alcuna traccia nei resti fossili. Le vertebre stesse già da
Homo habilis segnano una diminuzione in lunghezza, e un aumento del
diametro relativo all'aumento delle dimensioni dell'intero corpo,
maggiore di quanto non sia nei suoi antenati, permettendo alla schiena
di sopportare un maggior carico e di assorbire meglio gli sforzi.
Le
connessioni tra la pelvi e la spina dorsale sono infine più robuste e
larghe, provvedendo a offrire maggiore stabilità, e la pelvi nell'uomo, a
differenza delle Australopitecine, presenta inoltre rilievi ossei per
gli attacchi dei muscoli glutei sulla regione esterna. I glutei
nell'uomo sono più ampi, più robusti, sono muscoli critici durante la
corsa connettendo il femore al tronco, e in particolar modo è di rilievo
il grande gluteo, che nell'uomo è il più possente muscolo estensore
dell'anca.
Robinson nel 1972 aveva già dimostrato che una persona
colpita da paralisi al grande gluteo poteva camminare senza gravi
difficoltà, ma a confermare ulteriormente le osservazioni di Bramble e
Lieberman contribuiscono le conclusioni a cui giunse nel 1972 V.
Basmajian. La sua scoperta rivelò che il grande gluteo nella
deambulazione su terreno pianeggiante ha una funzione esclusivamente di
controllo degli arti inferiori nel momento di massima estensione,
frenando lo slancio in avanti e conferendo all'arto stabilità nel
momento in cui tocca terra, e non ricopre nel cammino una funzione
propulsiva. Una normale camminata richiede quindi ben poco della
potenziale energia del grande gluteo, e questo vale anche per la sola
stazione eretta, mentre l'immenso potenziale del muscolo entra in gioco
quando l'individuo sale un pendio scosceso, si alza da posizione seduta o
corre, contribuendo alla stabilità del tronco e offrendo la potenza
necessaria a compiere il movimento. Considerando che un'attività fisica
per essere capace di stimolare alterazioni anatomiche deve essere
necessariamente un'attività costante, continua e ripetuta più e più
volte nel tempo, e prendendo in considerazione l'ambiente stesso della
savana, dove i primi uomini si svilupparono, un ambiente prevalentemente
pianeggiante, è possibile ipotizzare che una grossa componente di
responsabilità nello sviluppo del grande gluteo sia da attribuire
proprio alla corsa.
Termoregolazione
L'altezza
raggiunta da H. ergaster, la cui media si aggirava attorno ad 1,75 cm,
comporta un aumento della superficie corporea e permette quindi
attraverso la sudorazione di dissipare meglio il calore in attività che
richiedono un estremo sforzo energetico. Allo stesso tempo arti
inferiori più lunghi, di cui non disponevano le Australopitecine,
permettevano una maggiore agilità e velocità. Proprio nella corsa la
lunghezza degli arti inferiori è importante poiché l'aumento della
velocità non si registra tanto con l'aumento della frequenza dei passi,
che comporta infatti anche un maggiore dispendio di energie, ma con
l'aumento della lunghezza di ogni singola falcata. Inoltre fondamentale è
lo sviluppo in H. ergaster di un setto nasale vero e proprio, con
narici rivolte verso il basso, che può essere spiegato come risposta
alla necessità di trattenere l'umidità corporea durante momenti
d'intensa attività fisica.
Meccanica della corsa e ruolo del piede nell'assorbimento e nella trasformazione dell'energia
Importantissimi
sono poi gli adattamenti a livello del piede che per sopportare
l'impatto e i traumi sollecitati dalla deambulazione e dalla corsa deve
presentare una struttura robusta e allo stesso tempo elastica. Ogni
qualvolta che infatti il piede tocca il terreno vi esercita delle forze e
contemporaneamente ne subisce altre uguali e contrarie, in relazione
all'accumulo di energia elastica all'impatto e al suo riutilizzo nella
fase di spinta, per il principio di conservazione dell'energia. Nella
fase d'impatto la forza reattiva agisce in direzione opposta al piede
con effetto frenante. I tendini del piede quindi si rilassano
completamente sotto l'azione gravitazionale, non opponendosi alla
gravità ma sfruttandola nell'adattare la pianta alla superficie
d'appoggio. Nella fase di stacco invece la forza reattiva determina lo
spostamento del corpo in avanti e il piede si oppone alla forza della
gravità, irrigidendosi (fondamentale a tale scopo è la migrazione
sottoastragalica del calcagno). Se però nella deambulazione le
problematiche energetiche sono risolte trasformando continuamente
l'energia potenziale in cinetica (con l'aumentare di una
proporzionalmente diminuisce l'altra), nella corsa invece i processi di
accumulo e trasformazione dell'energia sono più complessi, sfruttando
infatti in tal caso l'energia elastica del piede. Analogamente a una
palla che rimbalza, in cui lo spostamento in avanti è dovuto all'energia
elastica accumulata in seguito alla sua deformazione nell'attimo in cui
urta contro il suolo, nell'uomo l'energia immagazzinata, proporzionale
all'energia cinetica sviluppatasi nella caduta, viene restituita nella
componente elastica (i muscoli), e negli elementi elastici in serie (i
tendini), durante la successiva spinta in avanti o in alto. In ogni
passo di corsa si individuano tre fasi: una fase di spinta, una di volo,
in cui il corpo è sospeso in aria, e una di arrivo al suolo. Il lavoro
che determina gli spostamenti del centro di gravità del corpo viene
compiuto essenzialmente nella fase di spinta. Da un lato infatti si
accelera il corpo, si aumenta dunque la sua energia cinetica, dall'altro
lo si innalza, aumentando la sua energia potenziale. Nella fase di volo
il baricentro del corpo raggiunge il livello massimo e poi tende a
scendere mentre la velocità rallenta, se pur di poco, a causa della
resistenza opposta dall'aria. Nella fase d'impatto il centro di gravità
si abbassa ulteriormente, l'energia potenziale tocca il punto più basso,
mentre il contatto del piede con il terreno determina un rallentamento
del corpo così che anche l'energia cinetica arriva al valore minimo. Per
mantenere la velocità costante l'accelerazione che si verifica nella
successiva spinta dovrà necessariamente compensare la "frenata" d'arrivo
a terra e quella, di entità molto minore, dovuta alla resistenza
dell'aria. Per sviluppare quindi la forza necessaria alla propulsione
del corpo in avanti si sfrutta l'energia elastica accumulata dai
complessi mio-tendinei del piede e della gamba. Fondamentali sono il
tendine di Achille e la fascia plantare, paragonabili a una molla che
prima si contrae sotto l'azione di forze e poi rilascia completamente
l'energia immagazzinata. Il tendine di Achille è la molla principale che
accumula energia elastica e il suo corretto funzionamento è tanto
fondamentale per la corsa che Bramble e Lieberman ritengono che da un
punto di vista evolutivo il suo sviluppo sia stato stimolato proprio da
una prolungata attività di corsa, mentre il suo coinvolgimento nella
deambulazione resterebbe relativamente scarso. La fascia plantare invece
ha un funzione fondamentale nel contribuire alla stabilità
dell'appoggio e nella trasmissione della forza dai muscoli del polpaccio
verso l'avampiede e la sua elasticità permette di risparmiare, per
mezzo della sua distensione, una notevole quantità di energie nella
corsa o nel salto. La loro importanza e il loro coinvolgimento
nell'attività fisica è testimoniato anche dalla frequenza con cui si
sviluppano negli atleti patologie relative a tali sistemi
muscolo-tendinei-ligamentosi, solitamente causate da carichi di lavoro
esagerati o incrementi troppo repentini, o da un errato appoggio del
piede durante l'attività sportiva Gli adattamenti che è possibile
rilevare dalle evidenze fossili di H. ergaster e H. sapiens includono
anche lunghi e "molleggiati" tendini, tra cui appunto il tendine di
Achille, mentre i reperti relativi ad Australopithecus suggeriscono che
le Australopitecine mancassero di un tendine di Achille ben sviluppato,
come così anche le attuali scimmie. L'arco plantare pare essersi
sviluppato solo parzialmente nelle Australopitecine, essendo stato
rilevato, dallo studio dei fossili di Sterkfontein e Hadar, uno scafoide
tarsale ben sviluppato e atto a sostenere più peso di quanto non si
registri nell'uomo, ma assai vicino alle proporzioni di uno scimpanzé.
La
struttura del piede nell'anatomia moderna si è notevolmente
differenziata rispetto ai nostri parenti più vicini, le Antropomorfe,
dovendo subire notevoli adattamenti legati soprattutto alla stazione
eretta costante, alla deambulazione e allo sviluppo di movimenti sempre
più complessi. La differenza più appariscente è innanzitutto la
divergenza dell'alluce, che passa da una funzione prensile a una
funzione di propulsione. Nell'uomo è strutturato parallelamente alle
altre dita, perdendo gran parte della mobilità che possedeva. Ha
prevalentemente il compito di liberare l'energia accumulata, sfruttando
la reazione della superficie d'appoggio nel far progredire il corpo, e
d'altro canto contribuisce a irrigidire l'intera struttura del piede. La
flessione dorsale delle dita infatti, oltre ad aumentare l'ancoraggio
al suolo nella spinta in avanti, attiva anche un meccanismo ad argano,
che rende il piede una vera e propria barra di leva. Nella corsa la
funzione delle dita e dell'alluce sono ancor più evidenti, mancando
spesso l'appoggio del tallone, e venendo così scaricato improvvisamente
tutto il peso corporeo sull'avampiede. Essendo maggiore l'energia
cinetica nella caduta del corpo, deve essere maggiore anche la reazione,
e quindi l'energia elastica nella propulsione. L'alluce, che
maggiormente si fa carico del compito di spingere avanti il corpo,
presenta quindi una struttura ossea, relativamente alle Antropomorfe ed
agli altri Primati, molto più robusta rispetto alle altre dita. Riguardo
alle Australopitecine i dati sul piede sono ancora contrastanti e non
abbondanti. Nel 1979, Mary Leakey trovò dozzine di impronte (fig. 3) in
una località dell'Africa orientale chiamata Laetoli, in Tanzania. orme
che non si differenziano molto da quelle lasciate dai piedi di essere
umani odierni, ritrovate in strati costituiti da ceneri vulcaniche
solidificate 3,56 MA. Le impressioni appartengono a più individui
diversi, suggerendo a un'approfondita analisi un tallone pronunciato, un
arco longitudinale mediale sviluppato, con il peso che poggia
lateralmente, e un alluce lievemente divergente, di dimensioni
notevolmente maggiori rispetto alle altre dita. Queste interpretazioni
non sono in realtà uniformemente accettate, e ancor oggi la discussione
sulle impronte di Laetoli e sulla loro appartenenza non è conclusa.
Basti pensare che c'è chi ritiene che siano impronte lasciate da esseri
umani di anatomia moderna e chi sostiene invece che siano state lasciate
da forme ancestrali contemporanee a Lucy. Ron Clarke nel 1998 scoprì
uno scheletro praticamente completo di Australopiteco in località
Sterkfontein, in Sud Africa. L'esemplare è stato datato a circa 3,7
milioni di anni fa, come le impronte di Laetoli, ma Ron clarke ricostruì
i piedi del suo Australopiteco in termini decisamente più scimmieschi,
presentando tratti ancora arcaici. L'alluce è senza dubbio divergente,
allungato e proteso lateralmente e così pure le altre dita sono
decisamente allungate, più di quanto riscontreremmo nell'anatomia
moderna, ma comunque meno divergente di quanto non lo sia nelle Scimmie
Antropomorfe. L'interpretazione che fu data da Ron clarke e dal
paleoantropologo Phillip V. Tobias, leggeva la divergenza e
l'opponibilità dell'alluce come testimonianze di uno stile di vita
ancora parzialmente arboreo, associato però alla completa capacità di
progredire bipede ma, nonostante ciò, numerose restarono le voci di
dissenso, che vedevano l'Australopithecus africanus completamente
adattato alla locomozione su due piedi e alla vita terricola,
interpretando e facendo fede sulle evidenze a livello della spina
dorsale, dell'anca e del ginocchio. Ron Clarke continuò però nel
sostenere che se pur la divergenza dell'alluce in Australopithecus
afarensis era un carattere arcaico da legare a uno stile di vita ancora
parzialmente forestale, questo non escludeva l'adozione di una
locomozione bipede più o meno costante. Fondamentale a riguardo risultò
un esperimento portato avanti nel Boswell Wilkie Circus con due
scimpanzé, un maschio e una femmina, lasciati liberi di camminare su
sabbia bagnata. I risultati si rivelarono in accordo con le sue teorie.
La femmina camminava nervosamente, con insicurezza, irrigidendo la
pianta del piede, contraendo quindi le dita ed estendendo l'alluce;
invece il maschio era più sicuro e tendeva a camminare con l'alluce in
una posizione generalmente vicina alle altre dita, probabilmente per una
locomozione più comoda. La divergenza dell'alluce quindi di per sé non
rappresenta un ostacolo insormontabile nell'assumere la stazione eretta e
una deambulazione bipede, anzi l'esperimento dimostra come in caso di
necessità lo scimpanzé maschio riesca addirittura ad adattarsi al
terreno convergendo l'alluce verso le altre dita per spostarsi più
facilmente. Le impronte lasciate dallo scimpanzé assomigliavano
notevolmente alle impronte di Laetoli, e dimostrano che una posizione
dell'alluce perlopiù parallela alle altre dita durante la locomozione
bipede non implica necessariamente lo sviluppo di una morfologia del
piede vicina a quella umana, né la perdita della capacità, se pur
parziale, di opporlo. in quest'ottica le impronte di Laetoli sarebbero
potute anche essere lasciate da un piede simile a quello
dell'Australopithecus afarensis StW573 ritrovato da Ron Clarke.
Inoltre
Deloison suggerì che un'altra caratteristica fondamentale delle
impronte di Laetoli è l'assenza dell'impressione di ogni singolo dito, a
parte ovviamente l'alluce, come se fossero contratte, proprio come le
contrae Pongo quando procede bipede. Nonostante però tutte le
spiegazioni formulate e le interpretazioni proposte, il mistero di
Laetoli sembra essere destinato a fomentare ancora a lungo disaccordo
all'interno della comunità scientifica e non solo. L'ipotesi avanzata da
Bramble e Lieberman offre comunque un'ulteriore chiave di lettura per
le conoscenze finora accumulate sulle Australopitecine e su Homo. i
caratteri scheletrici relativi ad Australopithecus rivelano infatti
nell'insieme una morfologia derivata rispetto alle Antropomorfe, in via
di "umanizzazione", e proprio la corsa potrebbe forse rappresentare lo
stimolo che avrebbe sempre più differenziato lo scheletro verso
l'anatomia moderna. In quest'ottica anche l'esperimento di Ron Clarke e
le sue intuizioni sulla possibile locomozione bipede di StW573,
potrebbero suggerire come per il raggiungimento della stazione eretta e
della deambulazione non sia stato necessario sviluppare tutti quei
caratteri "moderni" che oggi ci distinguono, ma si sia trattato di un
adattamento, se pur fondamentale, che ha apportato solo parziali
modifiche alla scheletro dello Australopitecine. Quindi proprio la
necessità di un'ulteriore specializzazione, la necessità di rendersi
competitivi nella corsa per la sopravvivenza e nell'approvvigionamento
del cibo avrebbe spinto l'uomo a distinguersi e differenziarsi dai suoi
antenati.
Funzione della corsa: dieta e caccia
Perché
la corsa si rese non solo necessaria, ma divenne un'attività così
determinante, fondamentale e discriminante, quando i nostri antenati
potevano semplicemente camminare?
I dati archeologici testimoniano
che dopo Australopithecus era avvenuta negli ominidi un'importante e
graduale transizione, che aveva visto sempre più aumentare la componente
carnivora nella dieta dei nostri antenati. Il passaggio da
un'alimentazione a base vegetale a un'alimentazione a base animale
comporta però cambiamenti a catena, a causa ed effetto, non solo nelle
abitudini alimentari e comportamentali ma anche a livello scheletrico e
anatomico. Le piante sono infatti statiche, sessili, e sono dotate solo
di meccanismi di difesa passivi, quali spine, sostanze chimiche di gusto
repellente, fitoliti, o particolari abitudini di crescita. Gli alimenti
vegetali hanno generalmente un basso contenuto proteico e un alto
contenuto di fibre con un basso valore calorico. Hanno inoltre un
elevato contenuto di cellulosa indigeribile e lo stomaco e l'intestino
negli erbivori assumono quindi la funzione di rumine, una sorta di
"camera di fermentazione" dove viene scomposta la cellulosa per
liberarne le proprietà nutritive. Per gli erbivori il tempo speso nella
nutrizione, in relazione al peso corporeo, raggiunge valori molto alti e
un erbivoro impiega più tempo a nutrirsi rispetto a un carnivoro dello
stesso peso. Per un animale di circa 3040 kg, come un Australopithecus,
passare da una dieta erbivora a una dieta carnivora significherebbe
quindi spendere invece di 6 solo 2 ore al giorno nella nutrizione, con
un guadagno di 4 ore, ovvero un terzo delle ore di luce all'equatore. La
carne è infatti prontamente digeribile, ha bisogno di un intestino
relativamente più breve rispetto agli erbivori, con una prevalenza di
intestino tenue e inoltre ogni preda rappresenta una grande fonte di
calorie, contenendo un alto numero di proteine e un basso numero di
fibre. Se però adottare una dieta a base di carne sembra essere
vantaggioso, l'approvvigionamento del cibo diventa cosa complicata. Gli
animali da preda sono infatti circospetti, mobili, e usano non solo
difese passive, quali la mimetizzazione, ma anche difese attive, quali
morsi, calci, e la fuga. Passare quindi a una dieta carnivora richiede
necessariamente una specializzazione nell'approvvigionamento di carne,
midollo e cervello, attraverso lo sciacallaggio o attraverso la caccia,
trovandosi così costretti a competere con gli altri predatori della
savana. Prima di riuscire a costruire utensili, quali lance, frecce,
reti (non testimoniate prima del Paleolitico Superiore, quindi non prima
di 40.000 anni fa), capaci di bloccare e di colpire a lunga distanza la
preda, probabilmente la corsa rappresentava l'unica risorsa non solo
per sfuggire ai predatori, ma anche per entrare in possesso del cibo.
Anche solo per poter raggiungere e trasportare le carcasse prima di
altri animali è necessario aver sviluppato caratteristiche fisiche di
robustezza, resistenza, stabilità e velocità, ed è stato ipotizzato che i
nostri antenati potessero, grazie alla loro attitudine alla corsa,
inseguire sino a sfiancare le prede, per poterle così catturare e
uccidere o per potersi avvicinare a sufficienza da scagliare pietre e
bastoni, come è stato osservato per i Boscimani dell'Africa del Sud.
Certo una tale tecnica, in relazione alle possibilità di successo,
implica un grande dispendio di energie e di tempo, ma comunque non
considerare la corsa come parte integrante nell'approvvigionamento del
cibo sarebbe ugualmente azzardato.
L'uomo d'altro canto
non è mai stato visto come un gran corridore, e non è effettivamente
capace di raggiungere alte velocità (il massimo è di circa 43 km/h nei
migliori atleti, contro i quasi 100 km/h di antilopi e i 110 km/h del
ghepardo) ma, sulle lunghe distanze, dimostra di essere competitivo.
Innanzitutto bisogna considerare che paradossalmente nella caccia non è
necessario che il predatore abbia una velocità massima più elevata della
preda. Il paradosso può essere spiegato pensando alla differenza tra la
velocità massima media di tutta una specie e la velocità raggiunta da
un singolo predatore durante un particolare inseguimento. Accanto a
questo inoltre va aggiunto che oltre la velocità massima va preso in
considerazione il tempo durante il quale tale velocità sarà mantenuta
costante. L'uomo può regolarmente correre per 10 km e anche per distanze
notevolmente maggiori (basti pensare alle maratone di 42 km a cui ogni
anno decine di migliaia di persone partecipano), a una media di 19-25
km/h, distanze impensabili per qualsiasi altro primate, e comparabili
con altri quadrupedi specializzati nella corsa, quali cani, lupi e iene,
che percorrono rispettivamente 10, 14 e 19 km al giorno. Questo non
significa che l'uomo possa automaticamente battere sulle lunghe distanze
mammiferi specializzati, ma rimane comunque un corridore competitivo, a
differenza degli altri Primati ancestrali e attuali, capaci solo di
brevi, se pur veloci, scatti. L'altro fattore in gioco nella caccia è la
socialità. I carnivori sociali, quali leoni e iene, hanno più successo
di quanto farebbe pensare il rapporto generale tra le velocità del
predatore e il buon esito dell'inseguimento, mentre i predatori
solitari, quali ghepardi, leopardi o le iene striate africane, cacciano
con esito peggiore. Anche solo cooperare per isolare o per bloccare un
animale da preda, o darsi il cambio nella corsa, possono infatti
diventare strategie vincenti nell'attività venatoria.
I
cambiamenti cruciali che quindi un predatore deve sviluppare consistono
in adattamenti anatomici al fine della resistenza e della velocità, di
modo da presentarsi competitivi, e adattamenti comportamentali ai fini
della socialità. Non è da sottovalutare inoltre che con il passaggio a
una dieta carnivora molti predatori occupano il tempo in avanzo per
dormire e per socializzare, e questo potrebbe essere stato vero anche
per i primi ominidi: forse proprio il tempo libero impiegato nell'oziosa
manipolazione di oggetti e nella socializzazione rappresenta un
carattere essenziale per lo sviluppo dell'intelligenza e della
creatività caratteristiche dell'uomo moderno. Ma se da una parte il
passaggio a una dieta carnivora rappresenta la possibilità, o necessità,
di dedicarsi ad attività biologicamente stimolanti, quali la caccia e
la socializzazione, l'aumento del volume cerebrale richiede una maggiore
spesa di energia, e quindi un'alimentazione più ricca. Il cervello
consuma, rispetto al suo peso, il 3% delle riserve energetiche del
corpo, una quantità di energia cinque volte superiore a quella dei
muscoli, a prescindere dalla loro attività, e da solo necessita del 20%
circa di tutto l'ossigeno che respiriamo. E' quindi sempre in un
meccanismo di causa-effetto che si dovrebbe leggere l'evoluzione umana,
non tanto cercando di stabilire quali delle acquisizioni sia più
importante, ma tenendo ben presente che, se pur in vario modo, sono tra
loro strettamente collegate e non scindibili l'una dall'altra.
Contestualizzazione cronologica della corsa
Se
è stato finora ipotizzato come e perché si sviluppò l'adattamento alla
corsa di resistenza, difficile resta stabilire quando. E' possibile
semmai ipotizzare quando ormai tale adattamento fosse già sviluppato.
Gli studi di Bramble e Lieberman delineano infatti l'Homo come un
corridore, una sorta di irrequieto viaggiatore, che a piedi o a corsa si
spostava spinto dalle necessità. Guardando però alla nostra storia
evolutiva il primo vero "viaggiatore" che incontriamo è l'Homo ergaster
mentre tutte le specie di ominidi precedenti erano restate confinate
all'interno del continente africano. La prima grande diffusione di Homo è
primato di ergaster. La velocità con cui l'espansione territoriale
avvenne è impressionante considerando che la configurazione e il clima
del territorio cambiavano in continuazione, richiedendo una grande
capacità adattativa: dalla sua apparizione attorno a 1,8-1,7 Ma avrebbe
in breve tempo colonizzato la sponda orientale del Mediterraneo, almeno
da quanto testimoniato dai resti fossili di Homo georgicus rinvenuti a
Dmanisi in Georgia e databili attorno a 1,7-1,8 MA (i fossili relativi
ad H. georgicus, se pur attribuiti provvisoriamente alla specie H.
ergaster, potrebbero rappresentare una prima migrazione di una forma
arcaica differenziatasi in Africa prima della separazione di H.
ergaster, presentando difatti caratteri ancora molto vicini ad H.
habilis,
quali una capacità cranica ridotta, attorno a 600 cc, e una cultura
materiale ancora legata alla tradizione Olduwaiana), per poi occupare il
Vicino Oriente e l'Asia già attorno a 1,7-1,6 MA. Bisogna pensare che
un'espansione tanto grande in un periodo così breve di tempo sia da
imputare anche all'affermato cambiamento di dieta, essendo gli erbivori
più legati a un clima e un ambiente particolare, ed essendo inoltre
necessario per erbivori adattati a carnivori ridurre la propria densità
demografica, probabilmente proprio distribuendo la popolazione in una
zona geografica più vasta. I resti fossili testimoniano che H. ergaster
era effettivamente del tutto adattato a una dieta carnivora: possedeva
infatti un intestino breve, caratteristica esclusiva dei carnivori,
venendo le proteine animali metabolizzate velocemente a differenza degli
alimenti vegetali. Il torace dell'ergaster era infatti cilindrico,
particolarmente lungo e stretto, quasi indistinguibile da quello
moderno, e sicuramente non poteva ospitare un intestino lungo come
quello necessitato dagli erbivori per trasformare il cibo.
H.
ergaster era quindi carnivoro. Era anatomicamente molto vicino all'uomo
moderno, probabilmente cacciava, a giudicare dagli strumenti in pietra
che segnano un deciso balzo qualitativo rispetto alle industrie
Olduwaiane ed è anche attestato lo sviluppo di stretti legami sociali
tra individuo e individuo. Soprattutto percorreva lunghe distanze.
Inoltre, dei 26 caratteri analizzati dagli studiosi americani, ben 11
sui 15 coinvolti esclusivamente nella corsa di resistenza sono con
sicurezza riscontrati in Homo ergaster, e altri 4 gli sono invece
attributi con un margine di incertezza. Questo non vuole dimostrare che
l'attitudine alla corsa si sia sviluppata con ergaster ma semmai induce a
pensare che già fosse sviluppata in questa forma ominide.
Difficile
poi stabilire sino a che punto lo scheletro e l'anatomia di H. habilis
si fosse differenziata rispetto ai precedenti ominidi e se già
presentasse evidenti adattamenti a una prolungata attività di corsa,
vista anche l'incertezza con cui i fossili sono attribuiti a tale entità
tassonomica.
La corsa come adattamento alla caccia
L'uomo,
come Kortlandt già affermava, è l'unico animale a riunire in se
l'abilità manuale del Vegetariano alla concentrazione e alla scaltrezza
del Carnivoro. Caratteristiche fondamentali dei Primati arboricoli sono
infatti la differenziazione morfologica e funzionale tra arti posteriori
e arti anteriori, la differenziazione delle dita e l'acquisizione di
una loro mobilità indipendente, soprattutto per quanto concerne l'indice
e il pollice. Se pur con le dovute proporzioni e differenze tra specie e
specie, gli arti anteriori assumono fondamentalmente una funzione
prensile e di sostegno, mentre gli arti posteriori una funzione di
appoggio. L'eredità lasciata dalla vita arboricola ha permesso all'uomo
un'ulteriore differenziazione morfologica e funzionale degli arti,
sviluppando da una parte mani capaci di compiere operazioni complesse e
delicate, e dall'altra una base d'appoggio capace di sostenere l'intero
peso corporeo, di adattarsi al terreno e di compiere movimenti complessi
al fine di mantenere l'equilibrio. Potremmo dire che quindi l'uomo è
anatomicamente un compromesso tra l'abilità manuale, le capacità visive e
la mobilità del Vegetariano arboricolo e la propensione alla caccia del
Carnivoro terricolo.
Potrebbe essere stato il graduale
adattamento a predatore ad aver richiesto lo sviluppo di strutture
anatomiche che coniugassero resistenza e stabilità ad agilità e
mobilità, che consentissero la pratica di attività di estremo sforzo
fisico, quali la corsa, indipendentemente dal sostegno degli arti
superiori, liberi così di specializzarsi nella manipolazione
dell'ambiente esterno, e in primis nella produzione di strumenti
necessari alla sopravvivenza. Correre quanto camminare sono attività
distintive dell'essere uomo, acquisizioni decisive nella nostra storia
evolutiva, effetto e causa di adattamenti ugualmente importanti, tanto
radicate in noi che spesso è difficile rendersi conto della loro
complessità, e dei sottili equilibri necessari al bipedismo
"potenzialmente catastrofico" che ci caratterizza.
Problematiche
Nonostante
sia ragionevole ipotizzare un importante ruolo dell'attività di corsa
perlomeno nell'evoluzione di alcune parti o di alcuni particolari
complessi anatomici umani, sorgono ovviamente numerose problematiche che
necessariamente devono essere prese in considerazione.
Innanzitutto
è sempre difficile stabilire il preciso coinvolgimento di un
particolare gruppo muscolare od osseo nel compiere una determinata
azione. Non c'è infatti sempre una sola maniera di compiere l'azione, di
"muoversi", soprattutto per quanto riguarda la corsa dove la
variabilità nella realizzazione del movimento è molto forte da individuo
a individuo, a seconda della velocità e del terreno dove si pratica, ma
soprattutto è difficile stabilire e quantificare quanto una particolare
struttura anatomica possa essere fondamentale per un'azione e non per
un'altra, per la "corsa" e non per la "camminata". Stabilire che poi una
particolare conformazione sia evoluta esclusivamente per compiere un
dato movimento è ancor più difficile da dimostrare. Alcune critiche
mosse alle deduzioni di Bramble e Lieberman che, se posso permettermi,
mettono un accento un po' troppo forte sul ruolo della camminata e della
corsa nel processo evolutivo, ("it is reasonable to hypothesize that
Homo evolved to travel long distance by both walking and running."),
sottolineavano che le nostre gambe e le nostre braccia possono essere
considerate anche adattate per il nuoto, ma questo non significa che la
loro anatomia si sia evoluta necessariamente per questo. E' ovviamente
una provocazione, restando la corsa comunque un'attività più
prepotentemente necessaria e naturale per l'uomo che il nuoto, ma
comunque è un interessante spunto per ribadire che le necessità che
hanno spinto l'evoluzione e modificato le nostre caratteristiche
anatomiche sono sicuramente molteplici, dal bisogno di possedere arti
liberi per il trasporto e la produzione di oggetti, al bisogno di
adottare una locomozione che offrisse una visuale più ampia ed esponesse
una maggiore superficie corporea al vento e alle correnti d'aria
fresca, soprattutto considerando l'ambiente della savana.
Un'altra
interessantissima critica è stata mossa da Patricia Kramer
dell'Università di Washington. Se la corsa di resistenza, si domanda, è
un'attività di competenza maschile, in quanto da legare prevalentemente
alla caccia e all'approvvigionamento del cibo, come mai anche le donne
presentano un bacino stretto e un grande gluteo completamente
sviluppato, e sono totalmente adattate alla corsa di resistenza? Non è
facile rispondere a un tale domanda, ma si possono comunque fare alcune
osservazioni. Innanzitutto la suddivisione dei compiti che avrebbe visto
protagonisti uomini e donne nei primi aggregati umani non è un processo
cronologicamente ben databile né tanto meno è facile stabilire i modi e
le tappe attraverso le quali si realizzò. Si ipotizza che in tali
gruppi, successivamente al cambiamento di habitat e all'acquisizione
della stazione eretta, le femmine gravide o con piccoli erano
difficilmente in grado di partecipare alla caccia, cosicché venne a
crearsi naturalmente una separazione dei compiti. Solo le femmine senza
piccoli e i maschi prendevano parte alla caccia, le altre rimanevano in
luoghi ritenuti tranquilli e sicuri e si occupavano dell'allevamento dei
piccoli, della raccolta di frutti e altri alimenti. A poco a poco le
femmine, anche a causa di ripetute gravidanze, avrebbero però perso
l'allenamento alla caccia portando così a una più netta separazione dei
compiti e all'accumulo di maggiori differenziazioni anatomiche.
Ora,
se verosimilmente questo può essere stato in breve il processo
avvenuto, bisogna comunque considerare che se pur nell'attività di
caccia è fondamentale la capacità di correre a buone velocità anche per
lunghe distanze, il processo di diversificazione dei compiti può essere
avvenuto in un periodo successivo, quando l'attività di caccia, unita al
maggiore sviluppo celebrale, alla produzione di strumenti maggiormente
elaborati in legno, osso e pietra e allo sviluppo di mezzi di
comunicazione sempre più specifici, sarebbe divenuta sempre più
complessa, elaborando vere e proprie strategie d'azione, grazie a
trappole e armi da lancio e richiedendo una pratica costante e una
partecipazione continua, sia per apprendere le tecniche di caccia
stesse, sia per riuscire a coordinarsi efficientemente con gli altri
partecipanti. La capacità di correre su lunghe distante ad andature
sostenute avrebbe rappresentato invece un notevole vantaggio quando
ancora tali tecniche non si erano probabilmente evolute, non prima di
80.000 anni fa quindi, e quando lo sciacallaggio era ancora uno dei modi
principali di procurarsi cibo, rendendosi necessario competere con
altri mammiferi corridori senza disporre che di pietre più o meno
lavorate e bastoni. In questo quadro è possibile che non si fosse ancora
delineata una precisa suddivisione dei compiti, e che quindi le femmine
non fossero completamente escluse dall'attività venatoria.
Accanto
a questo bisogna considerare che comunque la corsa è un'attività
naturale, istintiva per l'uomo, da considerare anche come un'attività di
"difesa", un modo per fuggire dai predatori, per percorrere velocemente
tratti di savana in cui si è maggiormente esposti all'azione di altri
carnivori, un modo anche per poter trasportare, nel caso si renda
necessario, i piccoli inermi nel minor tempo possibile e quindi
esponendosi meno a eventuali pericoli.
Se pur sono necessari studi
molto più approfonditi, anche in tal caso probabilmente le acquisizioni
umane sono da considerarsi come prodotto di più necessità e di più
componenti diverse, e per un'attività come la corsa ipotizzare una
differenziazione a seconda dei sessi diventa, se pur molto interessante,
molto rischioso e problematico.