giovedì 15 marzo 2012

La Corsa e L'Evoluzione della Specie Umana

L'anatomia umana si sarebbe sviluppata più di 2 M.A. sotto la pressione e lo stimolo indotto da un 'attività di corsa, poiché attività necessaria ai nostri antenati nel competere con gli altri predatori per l'approvvigionamento di cibo nell'ambiente della savana. Proprio la corsa, in particolare la corsa su lunghe distanze, avrebbe stimolato la differenziazione dello scheletro e dei complessi muscolari umani a partire dalle Australopitecine. Questo il risultato, pubblicato il 18 Novembre 2004 sulla rivista Nature, dei decennali studi del Biologo Dennis Bramble dell'Università dello Utah e l'antropologo dell'Università di Harvard Daniel Lieberman.

Premessa

I fossili relativi ai più antichi ominidi sono databili tra 6-3 MA, un periodo che va dal Tardo Miocene al Pliocene Medio. Comunemente denominate Australopitecine arcaiche, questi fossili rappresentano gli antenati più vicini alle Antropomorfe che possediamo, forme ancora decisamente arcaiche, ma che già possiedono caratteristiche derivate, prima fra tutte la locomozione bipede abituale. I dati non sono certi a riguardo, essendo i complessi fossili ancora scarsi e frammentari, ma informazioni a livello dell'omero, della tibia, del femore e a livello craniale indicherebbero che già questi arcaici ominidi si muovessero con deambulazione bipodalica. un gruppo di resti trovato sulle colline Tugen, in Kenya, relativo a porzioni di mandibole con denti sparsi e frammenti degli arti inferiori, rivelerebbe che già l'Orrorin tugenensis (tale è il nome di questo primo potenziale ominide) fosse bipede, pur mantenendo un notevole adattamento all'arrampicata arborea. Questi caratteri fondamentali sarebbero confermati anche negli ominidi successivi, dai resti craniali relativi all'Ardipithecus ramidus, che mettono in luce la posizione del foramen magnum più avanzata rispetto alle Antropomorfe, così come ne l'Australopithecus anamensis, il più antico rappresentante della specie Australopithecus, dove caratteristiche a livello della tibia attesterebbero il bipedismo. Questo carattere non si sarebbe perso nei generi e nelle specie successive ma si sarebbe bensì affermato come un carattere vantaggioso e quindi favorito dalla selezione naturale, sino a rappresentare una caratteristica distintiva del genere Homo. Gli Studi di Dennis Bramble e Daniel Lieberman suggeriscono tuttavia che l'acquisizione della locomozione bipede di per sé non rappresenti per l'uomo un deciso stacco evolutivo, un carattere discriminante e stimolante cui ricondurre completamente l'evoluzione anatomica di Homo habilis, e ancor più di Homo ergaster. Le Australopitecine hanno camminato in posizione eretta per almeno 2,5 milioni di anni, pur presentando ancora caratteristiche fisiche ben lontane dall'uomo moderno: come può quindi il bipedismo aver improvvisamente stimolato l'evoluzione del corpo verso l'anatomia moderna? Questa la provocatoria e stimolante domanda posta dai due studiosi americani.
Il significato evolutivo degli adattamenti anatomici in Homo spiegati attraverso la corsa
Generalmente Homo habilis viene considerato degno di appartenenza al nostro stesso genere per caratteristiche a livello craniale, quale la conformazione più umana della scatola cranica, con gli occipitali arrotondati, e l'espansione delle aree frontali e parietali, indici di una capacità cranica maggiore che si aggirava attorno ai 600 cc. Ma non solo. Homo habilis è soprattutto il primo ominide a sviluppare tratti comportamentali tipicamente umani, l'occupazione ripetuta di una singola località, e la concreta produzione di strumenti in pietra. Si tratta della più antica testimonianza di una manipolazione volontaria e ripetuta dell'ambiente esterno da parte di un animale. L'interpretazione dei choppers e chopping tools, se lecito chiamarli così, è in realtà oggi argomento di accesi dibattiti incentrati attorno alla loro presunta funzionalità: o come nucleo, quindi esclusivamente come base per il distaccamento di schegge, o come vero e proprio strumento di taglio, incisione e percussione. Ciò che è importante mettere in evidenza, al di là delle forti problematiche annesse allo studio delle industrie relative al Paleolitico inferiore, è l'atteggiamento: l'aver iniziato in modo sistematico a lasciar traccia, in ogni piano di frequentazione, di ciottoli scheggiati e schegge, lavorate e non, comunque utilizzate, da quanto l'analisi delle tracce d'uso rivela, per tranciare, tagliare, raschiare, carne, legno, e cuoio. (L'analisi delle tracce d'uso si basa sulla possibilità di riconoscere lungo il margine funzionalmente attivo degli strumenti tracce di lavorazione e di usura attraverso microscopio ottico a luce riflessa, microscopio binoculare e microscopio a scansione, potendo così, attraverso un confronto con le tracce e le usure lasciate dalle attività sperimentali su manufatti litici moderni fabbricati con il medesimo tipo di selce, determinare l'effettivo utilizzo dello strumento.) Quale può essere stato il motore alla base di un tale comportamento? Probabilmente una scoperta casuale, ma ciò non toglie che successivamente a una semplice acquisizione individuale si passi a una conoscenza comune, estesa non solo a tutti gli elementi del singolo gruppo, ma anche agli altri gruppi di ominidi e quindi a tutti gli appartenenti alla specie, in modo relativamente uniforme, e senza che sia stato possibile identificare sino ad adesso linee divergenti dalla tradizione Olduwaiana. Quest'uniformità innanzitutto testimonia l'importanza dell'apprendimento sociale come mezzo per trasmettere, anche indirettamente, nuovi comportamenti utili alla sopravvivenza. Ogni acquisizione umana, in questo contesto, deve infatti necessariamente avere una ragione evolutiva, nascere con il fine di migliorare la propria condizione e di presentarsi più competitivi nella lotta per la sopravvivenza. Proprio lo stimolo base della conservazione di sé e della propria specie rappresenterebbe il motore per l'acquisizione di tali conoscenze e per la loro diffusione, in quanto necessarie, o perlomeno utili, alla specie. Ed è in tale ottica che, secondo gli studiosi americani, è effettivamente difficile spiegare lo sviluppo di alcuni caratteri anatomici moderni attraverso la sola acquisizione della locomozione bipodalica, anche perché in taluni casi non interessati nella deambulazione e non funzionali a tale scopo. La risposta viene quindi ricercata in un'attività naturale per l'uomo, che è però stata spesso vista semplicemente come una conseguenza logica della stazione eretta, la "corsa".

Bramble e Lieberman hanno ipotizzato che proprio la necessità di correre abbia portato alla differenziazione della linea umana, attribuendole una fondamentale importanza nella nostra storia evolutiva. La selezione naturale avrebbe infatti favorito l'affermarsi di quei caratteri anatomici che permettono di percorrere lunghe distanze a corsa, necessitando quindi di una struttura ossea e complessi muscolari che associno resistenza e potenza a stabilità ed equilibrio. La deambulazione bipede, secondo tali recenti studi, non figurerebbe quindi come un carattere così determinante nello sviluppo dell'anatomia umana, bensì il bipedismo, sviluppatosi già attorno a 4,5 MA in un habitat ancora parzialmente forestale, ben prima dell'avvento dei primi uomini, non rappresenterebbe da solo una caratteristica esclusiva e distintiva dell'uomo. Le Australopitecine già camminavano bipedi pur presentando caratteristiche fisiche decisamente distanti dalle proporzioni odierne. Come spiegare quindi unicamente attraverso l'acquisizione della postura eretta e della locomozione bipede tutti i cambiamenti che distinguono Homo da Australopithecus che, rispetto a noi, presenta gambe corte, avambracci più lunghi, spalle strette con la cavità glenoidea leggermente inclinata verso l'alto e connessioni muscolari tra spalle e il complesso testa-collo più estese e robuste? Per arrivare alle loro conclusioni Bramble e Lieberman hanno esaminato 26 tratti del corpo umano, di cui molti riscontrabili anche nei reperti fossili relativi a Homo erectus e in parte a Homo habilis, e solo alcuni di questi sono implicati nella deambulazione.

Caratteri anatomici necessari alla corsa

Fondamentalmente per praticare un'attività di corsa costante, il corpo deve essere capace di assorbire l'impatto con il terreno, assorbire quindi i colpi attraverso sistemi di dissipazione e distribuzione dell'energia, deve essere stabile e in grado di mantenersi in equilibrio, deve presentare una muscolatura sufficientemente potente da poter prolungare il movimento nel tempo e deve contemporaneamente essere capace di mantenere la temperatura corporea costante per evitare il surriscaldamento.

Equilibrio e stabilità

Ai fini dell'equilibrio il nostro corpo innanzitutto presenta una struttura craniale articolata sopra la colonna vertebrale, col baricentro situato in posizione centrale. Questo permette di mantenere la testa in posizione orizzontale con un minor dispendio di energie. Contemporaneamente la porzione facciale si presenta più piatta rispetto alle Australopitecine, con minor prognatismo, denti più piccoli e un apparato masticatorio di minor peso e potenza. La parte anteriore del cranio è controbilanciata dalla porzione occipitale, distribuendo così equamente il carico. La corretta distribuzione del peso è un carattere fondamentale soprattutto in attività di intenso sforzo fisico quali la corsa. In aggiunta, il canale semicircolare posteriore è, in Homo, decisamente più largo che in Pan o Australopithecus, testimoniando probabilmente una maggiore sensibilità alle scosse e ai sobbalzi che subisce la testa, che sono potenzialmente maggiori e più intensi nella corsa che nella camminata. Il torace umano presenta una struttura indipendente dalla testa e le spalle hanno una posizione abbassata rispetto ad Australopithecus e Pan: sono più larghe e l'unico muscolo che le collega alla testa è il trapezio. Se infatti una struttura più compatta, con spalle in posizione elevata e robuste connessioni muscolari tra torace, collo e testa, è funzionale all'arrampicata arborea, tale struttura non offre vantaggi nella locomozione bipede, ma impedisce la rotazione del torace e degli arti superiori indipendentemente dalla testa, movimento invece necessario nel controbilanciare l'azione degli arti inferiori. La riduzione delle dimensioni degli avambracci è fondamentale per ottimizzare la corsa (anche oggi, individui con arti inferiori notevolmente più lunghi degli arti superiori, risultano avvantaggiati in tale attività), riducendo la potenza muscolare necessaria a flettere gli arti nel bilanciamento. Il loro movimento deve richiedere uno sforzo muscolare minimo, e allo stesso tempo compensare il movimento delle gambe con un corretto andamento dei gomiti, che mai devono restare fermi, per esempio in posizione arretrata, nel qual caso ci sarebbe necessariamente la torsione del busto. Il tronco nella corsa deve essere infatti portato avanti praticamente senza movimenti, con l'asse sagittale in posizione verticale, senza che si abbia "tilting", ossia, non deve aumentare l'inclinazione in avanti del busto al momento dell'appoggio al terreno, per poi diminuire in fase di spinta.
Ai fini della stabilità il corpo deve essere capace di assorbire i contraccolpi, che nella corsa si fanno decisamente più forti. A livello rachideo dorsale sono il legamento longitudinale anteriore e il legamento longitudinale posteriore che ricoprono tale funzione. Si tratta di fasce fibrose che si addossano rispettivamente alla faccia anteriore e posteriore dei corpi vertebrali, dall'epistrofeo sino alla parte superiore dell'osso sacro, aderendo fortemente ai corpi delle vertebre, e più lassamente ai dischi vertebrali. Tali legamenti sono riscontrabili in mammiferi specializzati nella corsa, quali cani e cavalli, o in animali con teste di grosse dimensioni, come elefanti, mentre non sono riscontrabili in Pan, e probabilmente neppure in Australopithecus, non essendone rilevabile alcuna traccia nei resti fossili. Le vertebre stesse già da Homo habilis segnano una diminuzione in lunghezza, e un aumento del diametro relativo all'aumento delle dimensioni dell'intero corpo, maggiore di quanto non sia nei suoi antenati, permettendo alla schiena di sopportare un maggior carico e di assorbire meglio gli sforzi.
Le connessioni tra la pelvi e la spina dorsale sono infine più robuste e larghe, provvedendo a offrire maggiore stabilità, e la pelvi nell'uomo, a differenza delle Australopitecine, presenta inoltre rilievi ossei per gli attacchi dei muscoli glutei sulla regione esterna. I glutei nell'uomo sono più ampi, più robusti, sono muscoli critici durante la corsa connettendo il femore al tronco, e in particolar modo è di rilievo il grande gluteo, che nell'uomo è il più possente muscolo estensore dell'anca.
Robinson nel 1972 aveva già dimostrato che una persona colpita da paralisi al grande gluteo poteva camminare senza gravi difficoltà, ma a confermare ulteriormente le osservazioni di Bramble e Lieberman contribuiscono le conclusioni a cui giunse nel 1972 V. Basmajian. La sua scoperta rivelò che il grande gluteo nella deambulazione su terreno pianeggiante ha una funzione esclusivamente di controllo degli arti inferiori nel momento di massima estensione, frenando lo slancio in avanti e conferendo all'arto stabilità nel momento in cui tocca terra, e non ricopre nel cammino una funzione propulsiva. Una normale camminata richiede quindi ben poco della potenziale energia del grande gluteo, e questo vale anche per la sola stazione eretta, mentre l'immenso potenziale del muscolo entra in gioco quando l'individuo sale un pendio scosceso, si alza da posizione seduta o corre, contribuendo alla stabilità del tronco e offrendo la potenza necessaria a compiere il movimento. Considerando che un'attività fisica per essere capace di stimolare alterazioni anatomiche deve essere necessariamente un'attività costante, continua e ripetuta più e più volte nel tempo, e prendendo in considerazione l'ambiente stesso della savana, dove i primi uomini si svilupparono, un ambiente prevalentemente pianeggiante, è possibile ipotizzare che una grossa componente di responsabilità nello sviluppo del grande gluteo sia da attribuire proprio alla corsa.

Termoregolazione

L'altezza raggiunta da H. ergaster, la cui media si aggirava attorno ad 1,75 cm, comporta un aumento della superficie corporea e permette quindi attraverso la sudorazione di dissipare meglio il calore in attività che richiedono un estremo sforzo energetico. Allo stesso tempo arti inferiori più lunghi, di cui non disponevano le Australopitecine, permettevano una maggiore agilità e velocità. Proprio nella corsa la lunghezza degli arti inferiori è importante poiché l'aumento della velocità non si registra tanto con l'aumento della frequenza dei passi, che comporta infatti anche un maggiore dispendio di energie, ma con l'aumento della lunghezza di ogni singola falcata. Inoltre fondamentale è lo sviluppo in H. ergaster di un setto nasale vero e proprio, con narici rivolte verso il basso, che può essere spiegato come risposta alla necessità di trattenere l'umidità corporea durante momenti d'intensa attività fisica.

Meccanica della corsa e ruolo del piede nell'assorbimento e nella trasformazione dell'energia

 Importantissimi sono poi gli adattamenti a livello del piede che per sopportare l'impatto e i traumi sollecitati dalla deambulazione e dalla corsa deve presentare una struttura robusta e allo stesso tempo elastica. Ogni qualvolta che infatti il piede tocca il terreno vi esercita delle forze e contemporaneamente ne subisce altre uguali e contrarie, in relazione all'accumulo di energia elastica all'impatto e al suo riutilizzo nella fase di spinta, per il principio di conservazione dell'energia. Nella fase d'impatto la forza reattiva agisce in direzione opposta al piede con effetto frenante. I tendini del piede quindi si rilassano completamente sotto l'azione gravitazionale, non opponendosi alla gravità ma sfruttandola nell'adattare la pianta alla superficie d'appoggio. Nella fase di stacco invece la forza reattiva determina lo spostamento del corpo in avanti e il piede si oppone alla forza della gravità, irrigidendosi (fondamentale a tale scopo è la migrazione sottoastragalica del calcagno). Se però nella deambulazione le problematiche energetiche sono risolte trasformando continuamente l'energia potenziale in cinetica (con l'aumentare di una proporzionalmente diminuisce l'altra), nella corsa invece i processi di accumulo e trasformazione dell'energia sono più complessi, sfruttando infatti in tal caso l'energia elastica del piede. Analogamente a una palla che rimbalza, in cui lo spostamento in avanti è dovuto all'energia elastica accumulata in seguito alla sua deformazione nell'attimo in cui urta contro il suolo, nell'uomo l'energia immagazzinata, proporzionale all'energia cinetica sviluppatasi nella caduta, viene restituita nella componente elastica (i muscoli), e negli elementi elastici in serie (i tendini), durante la successiva spinta in avanti o in alto. In ogni passo di corsa si individuano tre fasi: una fase di spinta, una di volo, in cui il corpo è sospeso in aria, e una di arrivo al suolo. Il lavoro che determina gli spostamenti del centro di gravità del corpo viene compiuto essenzialmente nella fase di spinta. Da un lato infatti si accelera il corpo, si aumenta dunque la sua energia cinetica, dall'altro lo si innalza, aumentando la sua energia potenziale. Nella fase di volo il baricentro del corpo raggiunge il livello massimo e poi tende a scendere mentre la velocità rallenta, se pur di poco, a causa della resistenza opposta dall'aria. Nella fase d'impatto il centro di gravità si abbassa ulteriormente, l'energia potenziale tocca il punto più basso, mentre il contatto del piede con il terreno determina un rallentamento del corpo così che anche l'energia cinetica arriva al valore minimo. Per mantenere la velocità costante l'accelerazione che si verifica nella successiva spinta dovrà necessariamente compensare la "frenata" d'arrivo a terra e quella, di entità molto minore, dovuta alla resistenza dell'aria. Per sviluppare quindi la forza necessaria alla propulsione del corpo in avanti si sfrutta l'energia elastica accumulata dai complessi mio-tendinei del piede e della gamba. Fondamentali sono il tendine di Achille e la fascia plantare, paragonabili a una molla che prima si contrae sotto l'azione di forze e poi rilascia completamente l'energia immagazzinata. Il tendine di Achille è la molla principale che accumula energia elastica e il suo corretto funzionamento è tanto fondamentale per la corsa che Bramble e Lieberman ritengono che da un punto di vista evolutivo il suo sviluppo sia stato stimolato proprio da una prolungata attività di corsa, mentre il suo coinvolgimento nella deambulazione resterebbe relativamente scarso. La fascia plantare invece ha un funzione fondamentale nel contribuire alla stabilità dell'appoggio e nella trasmissione della forza dai muscoli del polpaccio verso l'avampiede e la sua elasticità permette di risparmiare, per mezzo della sua distensione, una notevole quantità di energie nella corsa o nel salto. La loro importanza e il loro coinvolgimento nell'attività fisica è testimoniato anche dalla frequenza con cui si sviluppano negli atleti patologie relative a tali sistemi muscolo-tendinei-ligamentosi, solitamente causate da carichi di lavoro esagerati o incrementi troppo repentini, o da un errato appoggio del piede durante l'attività sportiva Gli adattamenti che è possibile rilevare dalle evidenze fossili di H. ergaster e H. sapiens includono anche lunghi e "molleggiati" tendini, tra cui appunto il tendine di Achille, mentre i reperti relativi ad Australopithecus suggeriscono che le Australopitecine mancassero di un tendine di Achille ben sviluppato, come così anche le attuali scimmie. L'arco plantare pare essersi sviluppato solo parzialmente nelle Australopitecine, essendo stato rilevato, dallo studio dei fossili di Sterkfontein e Hadar, uno scafoide tarsale ben sviluppato e atto a sostenere più peso di quanto non si registri nell'uomo, ma assai vicino alle proporzioni di uno scimpanzé.
La struttura del piede nell'anatomia moderna si è notevolmente differenziata rispetto ai nostri parenti più vicini, le Antropomorfe, dovendo subire notevoli adattamenti legati soprattutto alla stazione eretta costante, alla deambulazione e allo sviluppo di movimenti sempre più complessi. La differenza più appariscente è innanzitutto la divergenza dell'alluce, che passa da una funzione prensile a una funzione di propulsione. Nell'uomo è strutturato parallelamente alle altre dita, perdendo gran parte della mobilità che possedeva. Ha prevalentemente il compito di liberare l'energia accumulata, sfruttando la reazione della superficie d'appoggio nel far progredire il corpo, e d'altro canto contribuisce a irrigidire l'intera struttura del piede. La flessione dorsale delle dita infatti, oltre ad aumentare l'ancoraggio al suolo nella spinta in avanti, attiva anche un meccanismo ad argano, che rende il piede una vera e propria barra di leva. Nella corsa la funzione delle dita e dell'alluce sono ancor più evidenti, mancando spesso l'appoggio del tallone, e venendo così scaricato improvvisamente tutto il peso corporeo sull'avampiede. Essendo maggiore l'energia cinetica nella caduta del corpo, deve essere maggiore anche la reazione, e quindi l'energia elastica nella propulsione. L'alluce, che maggiormente si fa carico del compito di spingere avanti il corpo, presenta quindi una struttura ossea, relativamente alle Antropomorfe ed agli altri Primati, molto più robusta rispetto alle altre dita. Riguardo alle Australopitecine i dati sul piede sono ancora contrastanti e non abbondanti. Nel 1979, Mary Leakey trovò dozzine di impronte (fig. 3) in una località dell'Africa orientale chiamata Laetoli, in Tanzania. orme che non si differenziano molto da quelle lasciate dai piedi di essere umani odierni, ritrovate in strati costituiti da ceneri vulcaniche solidificate 3,56 MA. Le impressioni appartengono a più individui diversi, suggerendo a un'approfondita analisi un tallone pronunciato, un arco longitudinale mediale sviluppato, con il peso che poggia lateralmente, e un alluce lievemente divergente, di dimensioni notevolmente maggiori rispetto alle altre dita. Queste interpretazioni non sono in realtà uniformemente accettate, e ancor oggi la discussione sulle impronte di Laetoli e sulla loro appartenenza non è conclusa. Basti pensare che c'è chi ritiene che siano impronte lasciate da esseri umani di anatomia moderna e chi sostiene invece che siano state lasciate da forme ancestrali contemporanee a Lucy. Ron Clarke nel 1998 scoprì uno scheletro praticamente completo di Australopiteco in località Sterkfontein, in Sud Africa. L'esemplare è stato datato a circa 3,7 milioni di anni fa, come le impronte di Laetoli, ma Ron clarke ricostruì i piedi del suo Australopiteco in termini decisamente più scimmieschi, presentando tratti ancora arcaici. L'alluce è senza dubbio divergente, allungato e proteso lateralmente e così pure le altre dita sono decisamente allungate, più di quanto riscontreremmo nell'anatomia moderna, ma comunque meno divergente di quanto non lo sia nelle Scimmie Antropomorfe. L'interpretazione che fu data da Ron clarke e dal paleoantropologo Phillip V. Tobias, leggeva la divergenza e l'opponibilità dell'alluce come testimonianze di uno stile di vita ancora parzialmente arboreo, associato però alla completa capacità di progredire bipede ma, nonostante ciò, numerose restarono le voci di dissenso, che vedevano l'Australopithecus africanus completamente adattato alla locomozione su due piedi e alla vita terricola, interpretando e facendo fede sulle evidenze a livello della spina dorsale, dell'anca e del ginocchio. Ron Clarke continuò però nel sostenere che se pur la divergenza dell'alluce in Australopithecus afarensis era un carattere arcaico da legare a uno stile di vita ancora parzialmente forestale, questo non escludeva l'adozione di una locomozione bipede più o meno costante. Fondamentale a riguardo risultò un esperimento portato avanti nel Boswell Wilkie Circus con due scimpanzé, un maschio e una femmina, lasciati liberi di camminare su sabbia bagnata. I risultati si rivelarono in accordo con le sue teorie. La femmina camminava nervosamente, con insicurezza, irrigidendo la pianta del piede, contraendo quindi le dita ed estendendo l'alluce; invece il maschio era più sicuro e tendeva a camminare con l'alluce in una posizione generalmente vicina alle altre dita, probabilmente per una locomozione più comoda. La divergenza dell'alluce quindi di per sé non rappresenta un ostacolo insormontabile nell'assumere la stazione eretta e una deambulazione bipede, anzi l'esperimento dimostra come in caso di necessità lo scimpanzé maschio riesca addirittura ad adattarsi al terreno convergendo l'alluce verso le altre dita per spostarsi più facilmente. Le impronte lasciate dallo scimpanzé assomigliavano notevolmente alle impronte di Laetoli, e dimostrano che una posizione dell'alluce perlopiù parallela alle altre dita durante la locomozione bipede non implica necessariamente lo sviluppo di una morfologia del piede vicina a quella umana, né la perdita della capacità, se pur parziale, di opporlo. in quest'ottica le impronte di Laetoli sarebbero potute anche essere lasciate da un piede simile a quello dell'Australopithecus afarensis StW573 ritrovato da Ron Clarke.
Inoltre Deloison suggerì che un'altra caratteristica fondamentale delle impronte di Laetoli è l'assenza dell'impressione di ogni singolo dito, a parte ovviamente l'alluce, come se fossero contratte, proprio come le contrae Pongo quando procede bipede. Nonostante però tutte le spiegazioni formulate e le interpretazioni proposte, il mistero di Laetoli sembra essere destinato a fomentare ancora a lungo disaccordo all'interno della comunità scientifica e non solo. L'ipotesi avanzata da Bramble e Lieberman offre comunque un'ulteriore chiave di lettura per le conoscenze finora accumulate sulle Australopitecine e su Homo. i caratteri scheletrici relativi ad Australopithecus rivelano infatti nell'insieme una morfologia derivata rispetto alle Antropomorfe, in via di "umanizzazione", e proprio la corsa potrebbe forse rappresentare lo stimolo che avrebbe sempre più differenziato lo scheletro verso l'anatomia moderna. In quest'ottica anche l'esperimento di Ron Clarke e le sue intuizioni sulla possibile locomozione bipede di StW573, potrebbero suggerire come per il raggiungimento della stazione eretta e della deambulazione non sia stato necessario sviluppare tutti quei caratteri "moderni" che oggi ci distinguono, ma si sia trattato di un adattamento, se pur fondamentale, che ha apportato solo parziali modifiche alla scheletro dello Australopitecine. Quindi proprio la necessità di un'ulteriore specializzazione, la necessità di rendersi competitivi nella corsa per la sopravvivenza e nell'approvvigionamento del cibo avrebbe spinto l'uomo a distinguersi e differenziarsi dai suoi antenati.

Funzione della corsa: dieta e caccia

Perché la corsa si rese non solo necessaria, ma divenne un'attività così determinante, fondamentale e discriminante, quando i nostri antenati potevano semplicemente camminare?
I dati archeologici testimoniano che dopo Australopithecus era avvenuta negli ominidi un'importante e graduale transizione, che aveva visto sempre più aumentare la componente carnivora nella dieta dei nostri antenati. Il passaggio da un'alimentazione a base vegetale a un'alimentazione a base animale comporta però cambiamenti a catena, a causa ed effetto, non solo nelle abitudini alimentari e comportamentali ma anche a livello scheletrico e anatomico. Le piante sono infatti statiche, sessili, e sono dotate solo di meccanismi di difesa passivi, quali spine, sostanze chimiche di gusto repellente, fitoliti, o particolari abitudini di crescita. Gli alimenti vegetali hanno generalmente un basso contenuto proteico e un alto contenuto di fibre con un basso valore calorico. Hanno inoltre un elevato contenuto di cellulosa indigeribile e lo stomaco e l'intestino negli erbivori assumono quindi la funzione di rumine, una sorta di "camera di fermentazione" dove viene scomposta la cellulosa per liberarne le proprietà nutritive. Per gli erbivori il tempo speso nella nutrizione, in relazione al peso corporeo, raggiunge valori molto alti e un erbivoro impiega più tempo a nutrirsi rispetto a un carnivoro dello stesso peso. Per un animale di circa 30­40 kg, come un Australopithecus, passare da una dieta erbivora a una dieta carnivora significherebbe quindi spendere invece di 6 solo 2 ore al giorno nella nutrizione, con un guadagno di 4 ore, ovvero un terzo delle ore di luce all'equatore. La carne è infatti prontamente digeribile, ha bisogno di un intestino relativamente più breve rispetto agli erbivori, con una prevalenza di intestino tenue e inoltre ogni preda rappresenta una grande fonte di calorie, contenendo un alto numero di proteine e un basso numero di fibre. Se però adottare una dieta a base di carne sembra essere vantaggioso, l'approvvigionamento del cibo diventa cosa complicata. Gli animali da preda sono infatti circospetti, mobili, e usano non solo difese passive, quali la mimetizzazione, ma anche difese attive, quali morsi, calci, e la fuga. Passare quindi a una dieta carnivora richiede necessariamente una specializzazione nell'approvvigionamento di carne, midollo e cervello, attraverso lo sciacallaggio o attraverso la caccia, trovandosi così costretti a competere con gli altri predatori della savana. Prima di riuscire a costruire utensili, quali lance, frecce, reti (non testimoniate prima del Paleolitico Superiore, quindi non prima di 40.000 anni fa), capaci di bloccare e di colpire a lunga distanza la preda, probabilmente la corsa rappresentava l'unica risorsa non solo per sfuggire ai predatori, ma anche per entrare in possesso del cibo. Anche solo per poter raggiungere e trasportare le carcasse prima di altri animali è necessario aver sviluppato caratteristiche fisiche di robustezza, resistenza, stabilità e velocità, ed è stato ipotizzato che i nostri antenati potessero, grazie alla loro attitudine alla corsa, inseguire sino a sfiancare le prede, per poterle così catturare e uccidere o per potersi avvicinare a sufficienza da scagliare pietre e bastoni, come è stato osservato per i Boscimani dell'Africa del Sud. Certo una tale tecnica, in relazione alle possibilità di successo, implica un grande dispendio di energie e di tempo, ma comunque non considerare la corsa come parte integrante nell'approvvigionamento del cibo sarebbe ugualmente azzardato.

L'uomo d'altro canto non è mai stato visto come un gran corridore, e non è effettivamente capace di raggiungere alte velocità (il massimo è di circa 43 km/h nei migliori atleti, contro i quasi 100 km/h di antilopi e i 110 km/h del ghepardo) ma, sulle lunghe distanze, dimostra di essere competitivo. Innanzitutto bisogna considerare che paradossalmente nella caccia non è necessario che il predatore abbia una velocità massima più elevata della preda. Il paradosso può essere spiegato pensando alla differenza tra la velocità massima media di tutta una specie e la velocità raggiunta da un singolo predatore durante un particolare inseguimento. Accanto a questo inoltre va aggiunto che oltre la velocità massima va preso in considerazione il tempo durante il quale tale velocità sarà mantenuta costante. L'uomo può regolarmente correre per 10 km e anche per distanze notevolmente maggiori (basti pensare alle maratone di 42 km a cui ogni anno decine di migliaia di persone partecipano), a una media di 19-25 km/h, distanze impensabili per qualsiasi altro primate, e comparabili con altri quadrupedi specializzati nella corsa, quali cani, lupi e iene, che percorrono rispettivamente 10, 14 e 19 km al giorno. Questo non significa che l'uomo possa automaticamente battere sulle lunghe distanze mammiferi specializzati, ma rimane comunque un corridore competitivo, a differenza degli altri Primati ancestrali e attuali, capaci solo di brevi, se pur veloci, scatti. L'altro fattore in gioco nella caccia è la socialità. I carnivori sociali, quali leoni e iene, hanno più successo di quanto farebbe pensare il rapporto generale tra le velocità del predatore e il buon esito dell'inseguimento, mentre i predatori solitari, quali ghepardi, leopardi o le iene striate africane, cacciano con esito peggiore. Anche solo cooperare per isolare o per bloccare un animale da preda, o darsi il cambio nella corsa, possono infatti diventare strategie vincenti nell'attività venatoria.

I cambiamenti cruciali che quindi un predatore deve sviluppare consistono in adattamenti anatomici al fine della resistenza e della velocità, di modo da presentarsi competitivi, e adattamenti comportamentali ai fini della socialità. Non è da sottovalutare inoltre che con il passaggio a una dieta carnivora molti predatori occupano il tempo in avanzo per dormire e per socializzare, e questo potrebbe essere stato vero anche per i primi ominidi: forse proprio il tempo libero impiegato nell'oziosa manipolazione di oggetti e nella socializzazione rappresenta un carattere essenziale per lo sviluppo dell'intelligenza e della creatività caratteristiche dell'uomo moderno. Ma se da una parte il passaggio a una dieta carnivora rappresenta la possibilità, o necessità, di dedicarsi ad attività biologicamente stimolanti, quali la caccia e la socializzazione, l'aumento del volume cerebrale richiede una maggiore spesa di energia, e quindi un'alimentazione più ricca. Il cervello consuma, rispetto al suo peso, il 3% delle riserve energetiche del corpo, una quantità di energia cinque volte superiore a quella dei muscoli, a prescindere dalla loro attività, e da solo necessita del 20% circa di tutto l'ossigeno che respiriamo. E' quindi sempre in un meccanismo di causa-effetto che si dovrebbe leggere l'evoluzione umana, non tanto cercando di stabilire quali delle acquisizioni sia più importante, ma tenendo ben presente che, se pur in vario modo, sono tra loro strettamente collegate e non scindibili l'una dall'altra.

Contestualizzazione cronologica della corsa

Se è stato finora ipotizzato come e perché si sviluppò l'adattamento alla corsa di resistenza, difficile resta stabilire quando. E' possibile semmai ipotizzare quando ormai tale adattamento fosse già sviluppato. Gli studi di Bramble e Lieberman delineano infatti l'Homo come un corridore, una sorta di irrequieto viaggiatore, che a piedi o a corsa si spostava spinto dalle necessità. Guardando però alla nostra storia evolutiva il primo vero "viaggiatore" che incontriamo è l'Homo ergaster mentre tutte le specie di ominidi precedenti erano restate confinate all'interno del continente africano. La prima grande diffusione di Homo è primato di ergaster. La velocità con cui l'espansione territoriale avvenne è impressionante considerando che la configurazione e il clima del territorio cambiavano in continuazione, richiedendo una grande capacità adattativa: dalla sua apparizione attorno a 1,8-1,7 Ma avrebbe in breve tempo colonizzato la sponda orientale del Mediterraneo, almeno da quanto testimoniato dai resti fossili di Homo georgicus rinvenuti a Dmanisi in Georgia e databili attorno a 1,7-1,8 MA (i fossili relativi ad H. georgicus, se pur attribuiti provvisoriamente alla specie H. ergaster, potrebbero rappresentare una prima migrazione di una forma arcaica differenziatasi in Africa prima della separazione di H. ergaster, presentando difatti caratteri ancora molto vicini ad H.
habilis, quali una capacità cranica ridotta, attorno a 600 cc, e una cultura materiale ancora legata alla tradizione Olduwaiana), per poi occupare il Vicino Oriente e l'Asia già attorno a 1,7-1,6 MA. Bisogna pensare che un'espansione tanto grande in un periodo così breve di tempo sia da imputare anche all'affermato cambiamento di dieta, essendo gli erbivori più legati a un clima e un ambiente particolare, ed essendo inoltre necessario per erbivori adattati a carnivori ridurre la propria densità demografica, probabilmente proprio distribuendo la popolazione in una zona geografica più vasta. I resti fossili testimoniano che H. ergaster era effettivamente del tutto adattato a una dieta carnivora: possedeva infatti un intestino breve, caratteristica esclusiva dei carnivori, venendo le proteine animali metabolizzate velocemente a differenza degli alimenti vegetali. Il torace dell'ergaster era infatti cilindrico, particolarmente lungo e stretto, quasi indistinguibile da quello moderno, e sicuramente non poteva ospitare un intestino lungo come quello necessitato dagli erbivori per trasformare il cibo.
H. ergaster era quindi carnivoro. Era anatomicamente molto vicino all'uomo moderno, probabilmente cacciava, a giudicare dagli strumenti in pietra che segnano un deciso balzo qualitativo rispetto alle industrie Olduwaiane ed è anche attestato lo sviluppo di stretti legami sociali tra individuo e individuo. Soprattutto percorreva lunghe distanze. Inoltre, dei 26 caratteri analizzati dagli studiosi americani, ben 11 sui 15 coinvolti esclusivamente nella corsa di resistenza sono con sicurezza riscontrati in Homo ergaster, e altri 4 gli sono invece attributi con un margine di incertezza. Questo non vuole dimostrare che l'attitudine alla corsa si sia sviluppata con ergaster ma semmai induce a pensare che già fosse sviluppata in questa forma ominide.
Difficile poi stabilire sino a che punto lo scheletro e l'anatomia di H. habilis si fosse differenziata rispetto ai precedenti ominidi e se già presentasse evidenti adattamenti a una prolungata attività di corsa, vista anche l'incertezza con cui i fossili sono attribuiti a tale entità tassonomica.

La corsa come adattamento alla caccia

L'uomo, come Kortlandt già affermava, è l'unico animale a riunire in se l'abilità manuale del Vegetariano alla concentrazione e alla scaltrezza del Carnivoro. Caratteristiche fondamentali dei Primati arboricoli sono infatti la differenziazione morfologica e funzionale tra arti posteriori e arti anteriori, la differenziazione delle dita e l'acquisizione di una loro mobilità indipendente, soprattutto per quanto concerne l'indice e il pollice. Se pur con le dovute proporzioni e differenze tra specie e specie, gli arti anteriori assumono fondamentalmente una funzione prensile e di sostegno, mentre gli arti posteriori una funzione di appoggio. L'eredità lasciata dalla vita arboricola ha permesso all'uomo un'ulteriore differenziazione morfologica e funzionale degli arti, sviluppando da una parte mani capaci di compiere operazioni complesse e delicate, e dall'altra una base d'appoggio capace di sostenere l'intero peso corporeo, di adattarsi al terreno e di compiere movimenti complessi al fine di mantenere l'equilibrio. Potremmo dire che quindi l'uomo è anatomicamente un compromesso tra l'abilità manuale, le capacità visive e la mobilità del Vegetariano arboricolo e la propensione alla caccia del Carnivoro terricolo.
Potrebbe essere stato il graduale adattamento a predatore ad aver richiesto lo sviluppo di strutture anatomiche che coniugassero resistenza e stabilità ad agilità e mobilità, che consentissero la pratica di attività di estremo sforzo fisico, quali la corsa, indipendentemente dal sostegno degli arti superiori, liberi così di specializzarsi nella manipolazione dell'ambiente esterno, e in primis nella produzione di strumenti necessari alla sopravvivenza. Correre quanto camminare sono attività distintive dell'essere uomo, acquisizioni decisive nella nostra storia evolutiva, effetto e causa di adattamenti ugualmente importanti, tanto radicate in noi che spesso è difficile rendersi conto della loro complessità, e dei sottili equilibri necessari al bipedismo "potenzialmente catastrofico" che ci caratterizza.

Problematiche

Nonostante sia ragionevole ipotizzare un importante ruolo dell'attività di corsa perlomeno nell'evoluzione di alcune parti o di alcuni particolari complessi anatomici umani, sorgono ovviamente numerose problematiche che necessariamente devono essere prese in considerazione.
Innanzitutto è sempre difficile stabilire il preciso coinvolgimento di un particolare gruppo muscolare od osseo nel compiere una determinata azione. Non c'è infatti sempre una sola maniera di compiere l'azione, di "muoversi", soprattutto per quanto riguarda la corsa dove la variabilità nella realizzazione del movimento è molto forte da individuo a individuo, a seconda della velocità e del terreno dove si pratica, ma soprattutto è difficile stabilire e quantificare quanto una particolare struttura anatomica possa essere fondamentale per un'azione e non per un'altra, per la "corsa" e non per la "camminata". Stabilire che poi una particolare conformazione sia evoluta esclusivamente per compiere un dato movimento è ancor più difficile da dimostrare. Alcune critiche mosse alle deduzioni di Bramble e Lieberman che, se posso permettermi, mettono un accento un po' troppo forte sul ruolo della camminata e della corsa nel processo evolutivo, ("it is reasonable to hypothesize that Homo evolved to travel long distance by both walking and running."), sottolineavano che le nostre gambe e le nostre braccia possono essere considerate anche adattate per il nuoto, ma questo non significa che la loro anatomia si sia evoluta necessariamente per questo. E' ovviamente una provocazione, restando la corsa comunque un'attività più prepotentemente necessaria e naturale per l'uomo che il nuoto, ma comunque è un interessante spunto per ribadire che le necessità che hanno spinto l'evoluzione e modificato le nostre caratteristiche anatomiche sono sicuramente molteplici, dal bisogno di possedere arti liberi per il trasporto e la produzione di oggetti, al bisogno di adottare una locomozione che offrisse una visuale più ampia ed esponesse una maggiore superficie corporea al vento e alle correnti d'aria fresca, soprattutto considerando l'ambiente della savana.

Un'altra interessantissima critica è stata mossa da Patricia Kramer dell'Università di Washington. Se la corsa di resistenza, si domanda, è un'attività di competenza maschile, in quanto da legare prevalentemente alla caccia e all'approvvigionamento del cibo, come mai anche le donne presentano un bacino stretto e un grande gluteo completamente sviluppato, e sono totalmente adattate alla corsa di resistenza? Non è facile rispondere a un tale domanda, ma si possono comunque fare alcune osservazioni. Innanzitutto la suddivisione dei compiti che avrebbe visto protagonisti uomini e donne nei primi aggregati umani non è un processo cronologicamente ben databile né tanto meno è facile stabilire i modi e le tappe attraverso le quali si realizzò. Si ipotizza che in tali gruppi, successivamente al cambiamento di habitat e all'acquisizione della stazione eretta, le femmine gravide o con piccoli erano difficilmente in grado di partecipare alla caccia, cosicché venne a crearsi naturalmente una separazione dei compiti. Solo le femmine senza piccoli e i maschi prendevano parte alla caccia, le altre rimanevano in luoghi ritenuti tranquilli e sicuri e si occupavano dell'allevamento dei piccoli, della raccolta di frutti e altri alimenti. A poco a poco le femmine, anche a causa di ripetute gravidanze, avrebbero però perso l'allenamento alla caccia portando così a una più netta separazione dei compiti e all'accumulo di maggiori differenziazioni anatomiche.
Ora, se verosimilmente questo può essere stato in breve il processo avvenuto, bisogna comunque considerare che se pur nell'attività di caccia è fondamentale la capacità di correre a buone velocità anche per lunghe distanze, il processo di diversificazione dei compiti può essere avvenuto in un periodo successivo, quando l'attività di caccia, unita al maggiore sviluppo celebrale, alla produzione di strumenti maggiormente elaborati in legno, osso e pietra e allo sviluppo di mezzi di comunicazione sempre più specifici, sarebbe divenuta sempre più complessa, elaborando vere e proprie strategie d'azione, grazie a trappole e armi da lancio e richiedendo una pratica costante e una partecipazione continua, sia per apprendere le tecniche di caccia stesse, sia per riuscire a coordinarsi efficientemente con gli altri partecipanti. La capacità di correre su lunghe distante ad andature sostenute avrebbe rappresentato invece un notevole vantaggio quando ancora tali tecniche non si erano probabilmente evolute, non prima di 80.000 anni fa quindi, e quando lo sciacallaggio era ancora uno dei modi principali di procurarsi cibo, rendendosi necessario competere con altri mammiferi corridori senza disporre che di pietre più o meno lavorate e bastoni. In questo quadro è possibile che non si fosse ancora delineata una precisa suddivisione dei compiti, e che quindi le femmine non fossero completamente escluse dall'attività venatoria.
Accanto a questo bisogna considerare che comunque la corsa è un'attività naturale, istintiva per l'uomo, da considerare anche come un'attività di "difesa", un modo per fuggire dai predatori, per percorrere velocemente tratti di savana in cui si è maggiormente esposti all'azione di altri carnivori, un modo anche per poter trasportare, nel caso si renda necessario, i piccoli inermi nel minor tempo possibile e quindi esponendosi meno a eventuali pericoli.
Se pur sono necessari studi molto più approfonditi, anche in tal caso probabilmente le acquisizioni umane sono da considerarsi come prodotto di più necessità e di più componenti diverse, e per un'attività come la corsa ipotizzare una differenziazione a seconda dei sessi diventa, se pur molto interessante, molto rischioso e problematico.

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